Con la sentenza n. 245 del 2019, la Corte costituzionale sancisce l’incostituzionalità dell’art. 7, comma 1, l. 27 gennaio 2012, n. 3, nella parte in cui stabilisce l’obbligo di pagare integralmente il debito per imposta sul valore aggiunto non versata, ammettendo così la falcidiabilità del predetto tributo nell’ambito delle procedure da sovraindebitamento.
Il Giudice delle leggi, dopo un completo ed esaustivo excursus sulla natura delle procedure (definite espressamente «concorsuali») riservate ai soggetti non fallibili, ha esaminato nel dettaglio le ragioni che hanno indotto il legislatore, con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, ad escludere che si potesse saldare parzialmente l’esposizione derivante dal mancato versamento dell’imposta sul valore aggiunto.
Precisamente, quando, nel 2012, è stata specificamente normata la ristrutturazione del debito delle persone fisiche – consumatori e professionisti – e degli imprenditori cc.dd. sotto soglia, la disciplina del concordato preventivo imponeva il pagamento integrale dell’imposta sul valore aggiunto, già considerata dalla giurisprudenza quale risorsa propria dell’Unione europea (cfr. Cass. 4 novembre 2011, n. 22931). Tale ultima previsione, peraltro, trovava una sua giustificazione nel generale divieto degli Stati membri di disporre una «rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento» e riscossione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione (si veda, a tal fine, la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006).
In questo contesto, il divieto di falcidia dell’imposta sul valore aggiunto, considerata – come detto – risorsa propria dell’Unione europea, trovava una sua ragion d’essere.
Tuttavia, oggi, il quadro normativo è radicalmente mutato.
Infatti, nel corso dell’anno 2016, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, interpellata dal Tribunale di Udine in ordine all’ammissibilità di una domanda di concordato preventivo, ha affermato che il pagamento parziale dell’imposta sul valore aggiunto da parte di un imprenditore in stato di insolvenza non possa dirsi contrario all’obbligo degli Stati membri di garantire la riscossione delle risorse proprie dell’Unione se comunque viene garantita una soddisfazione del credito maggiore rispetto all’alternativa liquidatoria (CGUE 7 aprile 2016).
Questa pronuncia ha, da un lato, contribuito a mutare l’interpretazione delle norme in materia di concordato e, dall’altro, indotto il legislatore a modificare le previsioni normative della legge fallimentare, rendendole coerenti con i principi in essa affermati.
In ragione di ciò, la prescrizione di infalcidiabilità dell’imposta sul valore aggiunto nelle procedure da sovraindebitamento, ad avviso della Corte costituzionale, non può più dirsi conforme ai principi costituzionali, ed in particolare all’art. 3 Cost.
A parere del Giudice delle leggi, escludendo che si possa procedere ad un’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 7, comma 1, l. n. 3 del 2012, trattare in modo differenziato due situazioni del tutto analoghe dal punto di vista oggettivo, in assenza di valide ragioni giustificatrici, è meritevole di censura. In tal senso, non può che reputarsi irrazionale associare la facoltà di stralcio del debito per imposta sul valore aggiunto al possesso o meno di requisiti puramente quantitativi – il superamento delle soglie di fallibilità –, in presenza di situazioni (analoghe) di insolvenza.
La Corte costituzionale, dunque, mette fine ad una palese incongruenza del sistema normativo, riconoscendo anche ai soggetti (in stato di sovraindebitamento) che non possiedono i requisiti per accedere alle procedure concorsuali maggiori di predisporre piani e proposte per la composizione della crisi che prevedano lo stralcio dell’imposta sul valore aggiunto.