Passata in giudicato la sentenza n. 772/19/16, la CTR di Venezia, sez.19, che ha accolto la tesi del dipartimento tributario di Elexia, vale la pena porsi ancora qualche domanda.
Nella parte in fatto, la vicenda è relativamente semplice.
Avendo l’Ufficio emesso un atto di recupero di un credito di imposta IRAP maturato in relazione ad attività di R&S, la società contribuente ha contestato la pretesa, impugnando il medesimo dinnanzi alla competente CTP.
Ottenuta sentenza favorevole, l’Ufficio ha presentato appello.
La CTR di Venezia, nel confermare la sentenza di primo grado, ha riconosciuto la legittimità del comportamento della società, la quale, dopo avere svolto una prima attività di R&S in ordine ad un nuovo processo produttivo, ne ha implementato i risultati nel proprio impianto. La tesi dell’Ufficio, secondo la quale si sarebbe trattato non di R&S, ma piuttosto di acquisto di macchinari, è stata giudicata meramente congetturale e formale, avendo l’Ufficio omesso di prendere atto degli effettivi contenuti della fattispecie e della conformità dei fatti descritti alla realtà. La CTR ha pertanto respinto l’appello e confermato la sentenza di primo grado, condannando l’Ufficio alle spese.
Così deciso il merito della questione, è tuttavia la tesi dell’Ufficio in via pregiudiziale, respinta dal giudice, a suscitare ancora interesse.
La contribuente aveva infatti pagato le somme indicate nell’atto impugnato, ma evidentemente tale pagamento non era avvenuto spontaneamente in adesione alla pretesa dell’Ufficio, bensì in virtù delle “Avvertenze” contenute nell’atto stesso ed in considerazione delle certe conseguenze del mancato pagamento (esecuzione forzata ed aggravio di oneri e spese, oltre che danno reputazionale).
La somma pretesa era pertanto stata pagata dalla contribuente nella logica del solve et repete, caratteristica ancora tipica di talune categorie di provvedimenti autoritativi dell’Agenzia delle Entrate, tra i quali tali atti di recupero, i quali, come già indica la denominazione, attengono alla fase attuativa del tributo (il pagamento) e non alla fase accertativa. In altri termini, i medesimi si comportano, da questo punto di vista, in modo analogo agli atti di riscossione dell’esattore (tipicamente il ruolo), la cui impugnazione non sospende automaticamente la riscossione, che procede invece con il proprio ritmo naturale nonostante la pendenza del giudizio.
In tale contesto, è pur vero che il contribuente paga, ma lo fa solo perché è costretto, e contemporaneamente contesta, appunto perché si auspica che le proprie ragioni siano riconosciute dal collegio giudicante e, per l’effetto, che quanto pagato venga infine restituito.
Oltretutto, nel caso di specie, per prudenza, proprio allo scopo di evitare qualsiasi equivoco, la contribuente si era premurata di indicare le proprie intenzioni all’Ufficio, comunicandole a mezzo raccomandata,
Ma l’Amministrazione, evidentemente poco convinta di poterla spuntare nel merito, ha sostenuto, sia in primo grado che in appello, che il pagamento, asseritamente “spontaneo”, avrebbe avuto l’effetto dell’accettazione alla pretesa e che ciò avrebbe giustificato la cessazione della materia del contendere ex art. 44 e 46 D.Lgs 546/1992.
La tesi dell’Ufficio era già stata rigettata dalla CTP, la quale correttamente aveva evidenziato e valorizzato l’obiettivo di tale pagamento.
Ma, soprattutto, la società aveva posto in essere fin da subito un comportamento nel suo insieme inequivoco, inibendo di fatto qualsiasi possibilità di confondere il medesimo con l’acquiescenza alle tesi dell’Ufficio dove, una serie di fatti, avvenuti tutti (considerati i tempi tecnici) nel medesimo contesto [(i) pagamento, (ii) impugnazione, (iii) dichiarazione a chiarimento delle intenzioni della contribuente e (iv) costituzione in giudizio], pacificamente conformi (i) a legge e (ii) alle istruzioni dell’atto impugnato, rendevano del tutto chiara e non suscettibile di essere malintesa l’intenzione della società (in tal senso, con riferimento all’analogo caso del pagamento successivo al giudizio di primo grado, Cass. n. 2826/2008; n. 27082/2006; Cass. n. 24547/2009; Cass. 11769 e 21385/2012; 20286/2013).
Così che l’argomentare dell’Ufficio era parso alla difesa essere soltanto un artificioso tentativo di speculazione non solo infondato, ma oltremodo pretestuoso.
La difesa aveva conseguentemente respinto il tentativo dell’Ufficio di ricondurre la fattispecie al brocardo “nemo potest venire contra factum proprium“. Il principio, che può tradursi in una sotto-clausola del principio generale delle buona fede negoziale (per tutti, Festi “Il divieto divenire contro il fatto proprio” pag. 109 e ss.), era stato infatti introdotto del tutto inopportunamente.
Infatti, la società non aveva mai manifestato, in alcuna forma, né esplicita né implicita, l’intenzione di prestare acquiescenza alla pretesa dell’Ufficio. Il pagamento era stato effettuato con espresse riserve e, dunque, non gli si poteva dare alcun valore di “fatto concludente”. Del resto non può essere inteso di per sé come accettazione il solo pagamento, potendo rilevare come tale esclusivamente alle condizioni del pagamento acquiescente vero e proprio, ex art. 15 del D.Lgs 218/1997, dove il medesimo presuppone espressamente, e prima di tutto, la rinuncia “ad impugnare l’avviso di accertamento” e dove il medesimo si formalizza contestualmente ad una agevolazione, consistente nel pagamento delle sanzioni ridotte ad un terzo” (in tal senso si vedano Nota D.R.E. Sicilia 19.10.1999 n.99/50685 e CTP di Torino n. 48/2009).
Ma non era certo questo il caso.
E ancora, quale avrebbe potuto essere l’affidamento ingenerato nell’Ufficio se la contribuente si era costituita in giudizio, senza dunque rinunziare all’azione? L’espressione “nemo potest venire contra factum proprium” presuppone l’ingenerazione di qualche tipo di legittimo affidamento in chi riceve il pagamento. La censura dell’Ufficio avrebbe avuto un qualche fondamento solo se il medesimo avesse potuto confidare nella stabilità della condotta della contribuente, ipotesi però inconciliabile con il tenore della comunicazione inviata dalla società all’Ufficio stesso e con l’apertura di un processo in opposizione alle pretese erariali.
La difesa aveva quindi sollevato l’eccezione di “dolo generale”, proprio allo scopo di evidenziare che era semmai l’Ufficio a venire meno al principio della buona fede, dato che da un lato intimava il pagamento delle somme, oltre interessi e sanzioni in misura piena, pena l’iscrizione a ruolo straordinario, e dall’altro poi intendeva approfittare di un comportamento da esso stesso indotto.
Nell’assumere la decisione, aderendo alla tesi della difesa, la CTR ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’Ufficio per avvenuta acquiescenza, “in quanto il contribuente ha univocamente chiarito, e tale chiarimento è stato peraltro assolutamente tempestivo, come il pagamento non sia stato assolutamente spontaneo né espressione di acquiescenza alla pretesa tributaria”.
Tutto bene quello che finisce bene, ma quanta fatica per una questione che pare ovvia e quante preoccupazioni per diritti sacrosanti e che invece vengono bistrattati proprio da quelle stesse autorità che per prime dovrebbero farne applicazione!