Come noto, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza stabilisce, all’art. 14, che l’organo di controllo, il revisore e la società di revisione, a far data dall’entrata in vigore della disposizione in parola – prevista per il 15 agosto 2020 –, avranno l’onere di verificare costantemente che l’assetto organizzativo dell’impresa risulti adeguato (anche ai fini di una tempestiva rilevazione delle difficoltà economiche che potrebbero colpirla), nonché segnalare immediatamente, all’organo amministrativo, «l’esistenza di fondati indizi della crisi». Qualsiasi anomalia dovrà essere tempestivamente rilevata e comunicata all’amministrazione dell’impresa.
Gli indizi di crisi, definiti anche dal precedente art. 13 «indici», non sono stati, tuttavia, specificamente individuati dal legislatore della riforma, il quale, anche considerato l’elevato tecnicismo della materia, ha ritenuto più opportuno demandare la loro definizione al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, prevedendo unicamente la funzionalità dei medesimi indici a misurare «la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare» e «l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi».
Dalle bozze dei lavori svolti dall’Organo rappresentativo dei commercialisti, il cui contenuto è stato recentemente pubblicato da alcuni quotidiani del settore, si evince come attualmente risultino essere stati coniati sette indici che, verosimilmente – e salvo correttivi – costituiranno il punto di riferimento per coloro che andranno a ricoprire incarichi di controllo o di revisione nelle società. Essi possono essere idealmente divisi in due categorie: gli indici di carattere prospettico e quelli patrimoniali ed economici, che si basano su dati di consuntivo.
Nella prima categoria di indici può essere collocato il Debt service coverage ratio – anche abbreviato con l’acronimo D.S.C.R. – a sei mesi, ovvero il rapporto tra i flussi di cassa a sei mesi da destinare a copertura del reddito in rapporto al debito da soddisfare nei successivi sei mesi.
Questo indice, di natura finanziaria, ha un significativo pregio che, tuttavia, potrebbe costituire allo stesso tempo un limite: esso si compone di dati prospettici, essenziali per poter effettivamente anticipare una possibile situazione di squilibrio (e di crisi), i quali, con ogni evidenza, necessitano di appositi sistemi e strumenti di programmazione e controllo.
Dotandosi solo poche imprese di un sistema di reportistica funzionale alla determinazione di dati di pianificazione, tale indice, probabilmente, sarà scarsamente utilizzato, quantomeno nel primo periodo successivo all’entrata in vigore.
Gli altri indici presentano, al contrario, una forte connotazione economica e patrimoniale e risultano pressoché privi di attitudine prognostica, che sarebbe essenziale per il buon funzionamento delle misure di allerta e, in ultima istanza, per il successo della riforma della legge fallimentare.
Nel dettaglio, accanto a dati ricavabili direttamente dal bilancio di esercizio o da situazioni patrimoniali infrannuali, come il patrimonio netto negativo, vi sono: l’indice di sostenibilità degli oneri finanziari, dato dal rapporto tra oneri finanziari e fatturato di periodo, l’indice di leverage, che si ricava dal rapporto tra patrimonio netto e debiti totali, l’indice di ritorno liquido dell’attivo, dato dal rapporto tra cash flow e attivo, l’indice di liquidità, che si ottiene dividendo le attività a breve termine per le passività a breve termine, nonché l’indice dato dal rapporto tra l’indebitamento tributario e previdenziale e l’attivo.
Come si può agevolmente notare gli indici individuati dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili sembrano rispecchiare poco la filosofia del forward looking che caratterizza l’impianto del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, perché basati essenzialmente su dati consuntivi, ma sono in linea con la significativa arretratezza (anche culturale) del sistema imprenditoriale italiano.