La Corte accoglie la nostra tesi, già apparsa su riviste specializzate
Abstract: La Corte di Cassazione (sentenza n. 21241/2017) ha esaminato, in assenza di precedenti, la disciplina della DIT /D.Lgs. 466/97) all’epoca in cui tale agevolazione venne sostituita dalla c.d. Tremonti bis, in relazione alla disciplina transitoria di cui all’art. 5, comma 1, lett. b), L. 18.10.01, n. 383. In particolare, la Corte si è occupata dell’effetto di “sterilizzazione” della sua base di calcolo (la c.d. variazione in aumento del capitale investito) nel caso in cui, nel corso dei periodi d’imposta 2001 e/o successivi, venissero mantenuti o erogati finanziamenti a società del medesimo gruppo di appartenenza, eventualmente successivamente rimborsati in tutto o in parte. La Suprema Corte, nel rigettare la tesi dell’Agenzia delle Entrate, che voleva il calcolo bloccato al 30.06.2001 ed i successivi cambiamenti rilevanti solo se in peius per il contribuente, ha invece accolto la tesi della difesa nel segno della continuità applicativa dell’intera disciplina della DIT. La tesi qui accolta era già stata anticipata, nei suoi contenuti interpretativi, in un articolo pubblicato a mie cure nel 2005 sulla rivista “Bollettino Tributario”.
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In data 13 settembre 2017 è stata depositata la Sentenza n. 21241/2017 con cui la Suprema Corte di Cassazione, cassando la sentenza di appello, ha accolto il ricorso del contribuente e rinviato la decisione nel merito alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto, formulando il seguente principio di diritto: “L’art. 1, comma 5, lett. b) legge 18 ottobre 2001, n. 383 (cd. Legge Tremonti-bis), deve essere interpretato nel senso che assumono rilevanza, ai fini della persistente fruizione degli effetti agevolativi previsti dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466 (c.d. d.i.t., dual income tax), le operazioni di variazione in aumento del capitale eseguite fino alla data del 30 giugno 2001. Tali operazioni hanno effetto, ai sensi dell’art. 1, comma 5, d.lgs. n. 466 del 1997, in proporzione ai giorni che intercorrono tra la data del conferimento in denaro e quella di chiusura del periodo d’imposta in cui esso è effettuato e, per il periodo d’imposta successivo, per l’intero loro ammontare. Detto effetto non si produce, ai sensi dell’art. 3, comma 3, lett. c), d.lgs. n. 466 del 1997, fino alla concorrenza dei finanziamenti verso partecipate, ancorché effettuati successivamente al 30 giugno 2001. Esso tuttavia si produrrà in caso di rimborso di detti finanziamenti, ancorché intervenuto successivamente alla predetta data, nei limiti di detto rimborso ed in proporzione al periodo intercorrente tra la data del rimborso medesimo e quella di chiusura del periodo d’imposta in cui è stato effettuato e, per il periodo d’imposta successivo, per l’intero suo ammontare (salvo che intervengano nuove variazioni in aumento o in diminuzione dei crediti da finanziamento da valutare, nei sensi sopra indicati, al termine del periodo d’imposta considerato”.
Ma vediamo innanzitutto quali sono le premessa a tale decisione.
La società A (di seguito anche solo “Società”, controllante della società B, aveva maturato, anteriormente al 30.06.2001, il diritto a fruire del beneficio della c.d. DIT, dual income tax , per un dato ammontare di incremento dei mezzi propri.
Nel 2001, tuttavia la medesima Società aveva erogato dei finanziamenti alla controllata B, finanziamenti poi rimborsati da questa nel corso del medesimo periodo d’imposta. Tale comportamento aveva, stando alla norma, degli effetti su tale ammontare.
L’interpretazione delle modalità con cui tali effetti si sarebbero dovuti applicare ha costituito l’oggetto di una lite ormai decennale, dove si è peraltro assistito ad una inusuale varietà di posizioni. In particolare, Guardia di Finanza ed Agenzia delle Entrate hanno espresso opinioni diverse, così come diverse e tra loro contrastanti sono state le decisioni di merito, mentre la Corte di Cassazione ha invece accolto l’opposta interpretazione del contribuente.
Riprendendo quindi il tema di fondo, è opportuno rammentare come la DIT avesse la finalità di premiare il contribuente virtuoso che, attraverso la capitalizzazione della propria impresa, realizzava un comportamento microeconomico in linea con la più vasta aspettativa di un generale rafforzamento dell’apparato produttivo del Paese, fine ultimo della disposizione.
L’effetto benefico della DIT consisteva nell’applicazione di una aliquota di imposizione più bassa (19%) di quella ordinaria (36%), quindi con un differenziale del 17%, ad una parte del reddito del contribuente, questa determinata sulla base di molteplici parametri.
Il parametro principale, tecnicamente denominato “variazione in aumento del capitale investito” era rappresentato dall’incremento del capitale in dotazione all’impresa del contribuente rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso alla data del 30.09.96 (il “bilancio di riferimento”), valore alimentato dai versamenti dei soci e dagli accantonamenti di utili. In definitiva, la variazione in aumento del capitale investito corrispondeva, sia pur grossolanamente, ad un aumento dei mezzi propri.
In contrapposizione rispetto alle predette variazioni in aumento, rilevavano con segno negativo le variazioni in diminuzione del capitale investito, a loro volta essenzialmente rappresentate dalle attribuzioni ai soci, a qualsiasi titolo, di parti del patrimonio netto della società (con esclusione quindi delle diminuzioni involontarie, in particolare delle perdite).
La norma contemplava ulteriori e distinti valori, aventi finalità antielusive, tra cui l’incremento dei crediti di finanziamento nei confronti di società del gruppo, da commisurarsi in rapporto alle consistenze risultanti dal bilancio dell’esercizio in corso al 30.09.96. I valori così individuati corrispondevano a modalità di utilizzo dell’aumento dei mezzi propri sgraditi al legislatore (in questo senso Di Tanno T., La dual Income Tax, Giuffrè Editore, 1998, p. 84) e rispetto ai quali l’incremento del capitale investito non poteva essere produttivo dei benefici della legge. La natura antielusiva di questa e di altre simili disposizioni, oltre che essere di per sé evidente (tra gli altri, Berardo – Dulcamare, La disciplina della dual income tax, Monografie del Corriere Tributario, Supplemento al Corriere Tributario, 1999, n. 22, pag. 36), emerge chiaramente dalla relazione di accompagnamento allo schema di D.L.vo n. 466/97 (“il sistema DIT si presta, occorre esserne consapevoli, alla trasformazione elusiva di capitale vecchio in nuovo. A fronteggiare in via generale questo rischio provvede l’art. 2(…)”; cfr. la relazione in Boll. Trib., 1998, n. 3, p. 260 e sub all. 8) e dalla prassi amministrativa (C.M. 06.03.98, n. 76/E, par. 6 : “Gli artt. 2 e 3, comma 3, lett. c), del decreto legislativo in esame, allo scopo di evitare che la disciplina della DIT possa prestarsi a manovre elusive, moltiplicando a cascata gli effetti agevolativi ovvero creando effetti distortivi nell’attribuzione dell’agevolazione, elencano talune fattispecie che danno luogo ad un disconoscimento della variazione in aumento del capitale investito” ); lo scopo di queste previsioni era naturalmente quello di impedire il godimento dei benefici in contesti in cui il fine ultimo della norma, ossia il rafforzamento effettivo della struttura finanziaria delle imprese e l’incentivo agli investimenti propriamente imprenditoriali, in assoluto ed in preferenza rispetto a quelli finanziari, era raggiunto soltanto in modo effimero o non era raggiunto affatto o in cui, ancora più maliziosamente, il beneficio stesso veniva indebitamente moltiplicato. La conseguenza prevista per tale utilizzo indesiderato era la “neutralizzazione” dell’incremento del capitale investito per importi corrispondenti. Si noti bene, si trattava di un effetto di “neutralizzazione”, e non di una vera e propria elisione. Infatti, come osservato da autorevole dottrina, le norme in questione non comportavano gli effetti, “a stretto rigore, di una vera e propria riduzione contabile simile a quella derivante, ad esempio, dalla devoluzione di poste del patrimonio netto ai soci, bensì di una sorta di sterilizzazione di questo patrimonio, il quale perde rilevanza ai fini di che trattasi, pur rimanendo presente presso l’impresa in corrispondenza degli investimenti anzidetti” (Assonime, circ. 42 del 27.05.98, par. 2.2., p. 100).
Già sotto il profilo letterale si riscontra infatti la diversa natura di tali valori, i quali non tanto si traducevano in una “riduzione” della variazione in aumento del capitale investito, ma piuttosto “privavano di effetto” l’incremento del capitale stesso, il quale incremento rimaneva quindi intatto nel suo ammontare, salvo appunto il venire meno della sua efficacia. Tale distinguo era posto in luce anche nelle istruzioni per il modello 760/98 redditi 1997 (pag. 16, paragrafo 6), in cui si legge che “la norma elenca talune fattispecie che danno luogo ad un disconoscimento in tutto o in parte della variazione in aumento del capitale investito”.
Conclusivamente, si deve osservare che, nei casi in cui le disposizioni antielusive commentate dipendevano da consistenze variabili nel tempo, come rispetto ai finanziamenti infragruppo, l’effetto della norma antielusiva era precario. Al venir meno delle condizioni a cui si applicava la disposizione antielusiva, come nel caso dell’integrale rimborso dei detti finanziamenti ad una controllata, non si sarebbero potuti ulteriormente produrre gli effetti elusivi colpiti dalla norma e, pertanto, la base di applicazione della DIT si sarebbe nuovamente espansa al suo livello naturale, commisurato all’incremento del capitale investito. La natura provvisoria della “sterilizzazione” della base DIT è quindi il fondamentale criterio di interpretazione della fattispecie al nostro esame.
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Così posto il quadro generale, la questione è quindi se tale natura, provvisoria, della “sterilizzazione” DIT venisse o meno vanificata dalla disciplina transitoria di cui all’art. 5, comma 1, lett b), L. 18.10.01, n. 383, che peraltro offriva elementi non equivoci di interpretazione.
Innanzitutto, letteralmente, la disposizione individua la categoria di soggetti interessati al provvedimento in coloro che alla data del 30 giugno 2001 avevano già effettuato “variazioni in aumento del capitale investito”, come definite dalla normativa di base.
In secondo luogo, la disposizione da un lato ribadisce che ai medesimi continuano ad applicarsi i benefici della DIT e limita tali benefici a quelli “relativi” ai versamenti fatti fino al 30.06.01.
In altri termini, si trattava di una sorta di “congelamento” del meccanismo incrementale del regime DIT, che impediva al contribuente di fruire di quegli eventuali ulteriori benefici che, altrimenti, gli sarebbero derivati dalle nuove variazioni in aumento del capitale investito successive alla predetta data del 30.06.01, come peraltro era stato autorevolmente osservato (Assonime, circolare n. 30 del 05.04.02, par. 3.1.2: “L’effetto che scaturisce dalla disposizione è semplicemente quello (…) di privare la DIT della possibilità di crescere ulteriormente a seguito di nuove capitalizzazioni operate dall’impresa dopo la suddetta data”).
Restavano tuttavia fermi, come esplicitamente prevede la disposizione, i benefici riferibili alle variazioni in aumento del capitale investito verificatesi anteriormente alla data stessa.
Vale poi la pena di insistere su di un inequivoco elemento letterale: la norma faceva ricorso al verbo “continuare” (“i soggetti che alla data del 30 giugno 2001 abbiano già eseguito operazioni di variazione in aumento del capitale ai sensi del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 466, continuano a fruire dei relativi benefici” ). E’ pertanto di tutta evidenza che la disposizione è stata posta nel segno della prosecuzione degli effetti della disciplina originaria, fatta naturalmente eccezione per il non trascurabile elemento di discontinuità rappresentato dall’irrilevanza degli incrementi di capitale investito successivi al 30.06.01, sola novità di rilievo.
Aspetti, questi, pienamente colti dalla Corte di Cassazione, la quale ha quindi affermato che “non può, invero, non muoversi dalla constatazione che l’art. 5, comma 1, lett. b) della legge n. 383 del 2001, testualmente si limita a prevedere, quale eccezione alla statuita soppressione della Dit, la persistente sua applicabilità (<< i soggetti … continuano a fruire dei relativi benefici>>) per le operazioni di variazione del capitale eseguite fino al 30 giugno 2001, senza nulla disporre, né tanto meno innovare, circa le modalità di applicazione della relativa disciplina e, in particolare, circa la modalità di applicazione delle norme antielusive”.
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Avendo la Suprema Corte condiviso il fondamentale canone interpretativo sopra esposto, ne conseguiva per l’effetto la cassazione per violazione di legge di entrambe le sentenze della Commissione Tributaria Regionale, che avevano invece accolto la tesi avversaria, incompatibile con la linea esegetica adottata dalla Corte di Cassazione.
Nel rigettare quindi gli argomenti dell’Ufficio, la Corte ha affermato che “non trova … riconoscibile fondamento, né testuale, né logico-sistematico”la tesi dell’Agenzia delle Entrate, accolta dalla CTR, secondo la quale la norma transitoria dell’art. 5 summenzionato opererebbe una sorta di congelamento, alla data del 30.06.2011, tale per cui l’eventuale decremento dei crediti di finanziamento non potrebbe dare luogo ad incrementi della base DIT successivi alla suddetta data, così che il 30.06.2011 sarebbe una sorta di “chiusura virtuale” del periodo d’imposta 2001.
“Tale tesi di fatto ipotizza una deroga al regime ordinario previsto dalla Dit in assenza di alcun indice testuale che possa darvi copertura e in mancanza altresì di alcuna intellegibile ragione sistematica”.
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In tale contesto la Corte ha anche colto l’aperta contraddittorietà della tesi erariale, che, come sopra esposto, veniva sempre posta pro fisci e contro il contribuente. Tale tesi, infatti, “è inoltre palesemente contraddetta dall’affermazione secondo la quale occorrerebbe invece tenere conto, per gli effetti riduttivi della base Dit, dei crediti erogati, ai sensi dell’art. 3, comma 3, successivamente al 30 giugno 2001: affermazione inspiegabile nella prospettiva fatta propria dall’Amministrazione di un orizzonte semestrale per la valutazione della rilevanza dei conferimenti”.
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In definitiva, quanto ai benefici accordati dalla norma, questi sono quelli relativi alle operazioni di variazione in aumento fino al 30 giugno 2001. Non si tratta, invece, dei benefici come risultanti al 30.06.01 ed a tale data cristallizzati, come inesattamente sostenuto dall’Ufficio, ma di quelli che discendono dai medesimi ed a seguito dell’applicazione dei principi generali della materia.
In conclusione, la Corte ha accolto la tesi della Società ed ha statuito il seguente primo principio di diritto secondo cui “l’art. 5, comma 1, lett. b) legge 18 ottobre 2001, n. 383 (cd legge Tremonti-bis), deve essere interpretato nel senso che assumono rilevanza, ai fini della persistente fruizione degli effetti agevolativi previsti dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466 (c.d. d.t.i., dual income tax), le operazioni di variazione in aumento del capitale eseguite alla data del 30 giugno 2001. Tali operazioni hanno effetto, ai sensi dell’art. 1, comma 5, d.lgs. n. 466 del 1997, in proporzione ai giorni che intercorrono tra la data del conferimento in denaro e quella di chiusura del periodo di imposta in cui esso è effettuato e, per il periodo di imposta successivo, per l’intero loro ammontare”.
Le modifiche normative apportate alla DIT e qui esaminate, in definitiva, hanno esclusivamente privato di rilevanza, ai fini della misura del beneficio, gli aumenti di capitale investito successivi alla data del 30.06.01. Per qualsiasi altro aspetto della normativa, invece, la novella dell’art. 5, c. 1, lett. b), della L. 18.10.2001, n. 383 non ha comportato modifiche di sorta, così che le norme di base, contenute nel D.L.vo 466/97, hanno continuato ad avere piena rilevanza.
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Residua quindi la seconda questione, ossia l’impatto dell’applicazione della norma antielusiva in relazione ai finanziamenti infragruppo che, come si è sopra detto, ha solo l’effetto di produrre una proporzionale “sterilizzazione” del bene derivante dai conferimento, con un effetto temporaneo e non permanente.
Se, come sopra esposto, si ritiene che la residua disciplina DIT, ed in particolar modo le disposizioni antielusive, operino integralmente, non si potrà che concluderne che, al venir meno delle cause temporanee di sterilizzazione della base DIT, la stessa base si riespanderà naturalmente, essendo questo è il normale effetto della normativa DIT, che viene così applicata nella sua interezza.
La Suprema Corte di Cassazione, condividendo tale linea interpretativa, ha ulteriormente precisato che “la norma in questione non assegna all’incremento dei crediti di finanziamento in favore di partecipate un ruolo diretto, equiparabile ai decrementi di capitale, ai fini della determinazione della base Dit, ma solo un ruolo indiretto, esplicantesi nel <> il conferimento eseguito. Questo in coerenza con la chiara finalità antielusiva della norma …… Ciò colloca all’evidenza gli incrementi considerati dalla norma non già sul piano della <>, ossia della concreta formazione della base Dit (solo per la quale, nella disciplina transitoria, è fissato il termine del 30 giugno 2001), bensì su quello della <>, ossia della valutazione dell’effettiva idoneità di tale base a produrre gli effetti agevolativi previsti: valutazione questa che … resta da compiersi nel più ampio orizzonte temporale rappresentato dall’anno solare”.
Sullo specifico effetto dei rimborsi, la Suprema Corte chiarisce poi che “il rilievo dei rimborsi dei finanziamenti è solo, a ben vedere, quello di far cessare la situazione che, finché pendeva, privava di effetto a fini Dit l’aumento del capitale”.
In conclusione, quanto alla rilevanza dei decrementi (e degli incrementi) dei finanziamenti intervenuti successivamente al 30.06 ma anteriormente al 31.12, la Suprema Corte ha affermato che “non vi è allora ragione di negare rilevanza, ai fini della determinazione della base Dit, alle variazioni (sia in aumento che in diminuzione) dell’ammontare dei crediti da finanziamento anteriormente alla chiusura del periodo d’imposta (….), ancorché successivamente alla data del 30 giugno 2001, posto che: a) tale variazione non riguarda la fattispecie (i conferimenti in denaro, quale dato fattuale cui viene riconnesso l’effetto agevolativo, sono e rimangono quelli effettuati anteriormente al 30 giugno 2001), ma solo la possibilità che ad essa venga effettivamente ricondotto detto effetto; b) ai fini di tale valutazione non muta … l’orizzonte temporale finale …. che rimane quello rappresentato dal termine del relativo periodo d’imposta ….”.
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Rimane infine la questione della modalità di applicazione della detta disciplina, con riferimento ai casi in cui, nel periodo di imposta, i finanziamenti alle controllate abbiano variazioni in un senso e nell’altro.
Al riguardo, la Suprema Corte ha fissato il seguente secondo principio di diritto: “Detto effetto [ndr.: quello dei conferimenti fatti] non si produce, ai sensi dell’art. 3, comma 3, lett. c), d.lgs. n. 466 del 1997, fino alla concorrenza dei finanziamenti verso partecipate, ancorché effettuati successivamente al 30 giugno 2001. Esso tuttavia si produrrà in caso di rimborso di detti finanziamenti, ancorché intervenuto successivamente alla predetta data, nei limiti di detto rimborso ed in proporzione al periodo intercorrente tra la data del rimborso medesimo e quella di chiusura del periodo d’imposta in cui è stato effettuato e, per il periodo d’imposta successivo, per l’intero suo ammontare (salvo che intervengano nuove variazioni in aumento o in diminuzione dei crediti da finanziamento da valutare, nei sensi sopra indicati, al termine del periodo d’imposta considerato”.
In particolare, la Suprema Corte ha precisato che “il rilievo dei rimborsi dei finanziamenti è solo …. quello di far cessare la situazione che, finchè pendeva, privava di effetto ai fini Dit l’aumento del capitale. ………. Ciò precisato, occorre allora a questo punto chiedersi se il termine del 30 giugno 2001 fissato per l’operatività delle agevolazioni Dit valga a precludere tale riespansione di efficacia in data ad esso successiva. La risposta anche in questo caso deve essere negativa, trattandosi di evento anch’esso tutto interno alla modulazione degli effetti di una fattispecie già interamente formatasi anteriormente al predetto termine”.
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E’ peraltro interessante aggiungere che già nei gradi di merito le competenti Commissioni Tributarie avevano avuto modo di giudicare inapplicabili le sanzioni tributarie irrogate, avendo al riguardo viceversa ritenuto applicabili i principi ricavabili dal combinato disposto degli artt. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/97, 8 D.Lgs. n. 546/92 e 10, comma 3 L. n. 212/2000.
Ciò in ragione del contesto interpretativo sopra esposto, incerto e quindi tale da escludere l’applicabilità delle sanzioni pecuniarie in ragione dei detti principi, ed in particolare dell’art. 6, comma 2, citato, che espressamente che “non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono…” . Principio, questo, ribadito sia dall’art. 8 del D.Lgs. n. 546/92 che dall’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge 27.7.2000 n. 212).
Sul punto, infatti, in altra sede la Suprema Corte di Legittimità ha avuto modo di precisare che “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere delle commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce, sussiste quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, il cui onere di allegazione grava sul contribuente.” (Cass. civ., sez. Trib., 29.09.2003, n. 14476 ).
Peraltro in dottrina si ritiene che cause, per così dire sintomatiche, dell’obiettiva incertezza siano individuabili, oltre che nella palese oscurità o equivocità della disposizione : “1. nella mancanza di pronunce giurisprudenziali o nell’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti; 2. nella contraddittorietà o scarsa chiarezza delle informazioni o interpretazioni ministeriali; nel contrasto tra interpretazione amministrativa e giurisprudenziale…” (Consolo e Glendi, in “Commentario Breve alle leggi del processo tributario”, pag. 83, ed. Cedam, anno 2005; in tal senso cfr. M. Logozzo in “Obiettiva incertezza della legge tributaria”, in Rass. Trib., anno 1998, pagg. 975 e ss).
Con riferimento alla obiettiva incertezza normativa. L’incertezza normativa è assunta come elemento “obiettivo”, il che significa che il dato normativo non è oggettivamente in grado di indicare con precisione e chiarezza il comportamento da tenere nel caso di specie. Si tratta esattamente della situazione in cui si è venuta a trovare la Società, dato che la norma indica esattamente come si dovesse comportare il contribuente con riferimento tanto agli incrementi quanto ai decrementi dei finanziamenti successivi al 30.06.01. La Società ha dovuto infatti ricavare dal dato normativo, dal contesto in cui il medesimo è inserito e dalla disciplina generale della DIT alcuni principi generali, da cui ha desunto una interpretazione più che plausibile che ha applicato alla fattispecie.
Con riferimento alla giurisprudenza che ha avuto modo di occuparsi dell’argomento. L’obiettiva incertezza era altresì dimostrata dall’assoluta mancanza di giurisprudenza (all’epoca della decisione) che si fosse occupata della questione. La giurisprudenza successiva, in buona sostanza quella della presente vicenda, ha espresso tre principi diversi nei tre gradi di giudizio, dopo che perfino Guardia di Finanza e Ufficio avevano assunto criteri interpretativi diversi.
Con riferimento poi alle pronunce ministeriali , si deve evidenziare che non solo l’Amministrazione Finanziaria ha modificato la propria opinione in corso di tempo, ma che nella pronuncia meno remota (C.M. 26.11.02, n. 85, par. 3) ha adottato principi interpretativi del tutto coerenti con quelli utilizzati dalla Società ed opposti a quelli inizialmente suggeriti dalla medesima ed invece poi adottati dall’Ufficio nell’atto impositivo.
Quanto poi al contesto generale , giova ancora osservare che la dottrina che si è occupata dell’argomento (Assonime) ha tutta seguito il medesimo criterio interpretativo della Società, che si potrà forse non condividere, essendo legittime anche opinioni diverse, ma che è certamente più che plausibile.