Le ordinanze emanate dai presidenti delle Regioni interessate dal contagio da Coronavirus (al momento, la Lombardia e il Veneto), ed il successivo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 febbraio 2020, hanno individuato “misure di contenimento e gestione … nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio del menzionato virus” (la cd. “zona rossa”: così l’art. 1 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6).
Per i comuni della zona rossa, in particolare, è prevista la “sospensione o limitazione dello svolgimento delle attività lavorative nel comune o nell’area interessata nonché delle attività lavorative degli abitanti di detti comuni o aree svolte al di fuori del comune o dall’area indicata”.
Anche al di fuori della zona rossa, tuttavia, sono in vigore misure che di fatto impongono la sospensione dell’attività lavorativa: si pensi, a titolo esemplificativo, alla chiusura generalizzata su tutto il territorio della regione Lombardia delle scuole di ogni ordine e grado, piuttosto che dei musei, dei cinema, delle palestre e degli impianti sportivi in genere.
Numerose imprese, infine, pur non essendo direttamente obbligate dai provvedimenti dell’autorità, hanno ritenuto di “auto-imporsi” misure prudenziali, limitando al minimo indispensabile l’accesso ai locali e agli uffici aziendali dei dipendenti e di tutti i collaboratori e, ove la natura della prestazione lavorativa lo consente, facendo ricorso al telelavoro e allo smart-working.
A tale ultimo proposito, peraltro, è interessante che l’art. 3 del citato DPCM del 23 febbraio abbia stabilito che “la modalità di lavoro agile … è applicabile in via automatica ad ogni rapporto di lavoro subordinato nell’ambito di aree considerate a rischio nelle situazioni di emergenza nazionale o locale … anche in assenza degli accordi individuali” previsti dalla normativa in materia.
In una situazione del genere, le aziende interessate più o meno direttamente dall’emergenza si chiedono su chi debba gravare l’onere economico di queste sospensioni e interruzioni delle attività economiche, soprattutto dal punto di vista della gestione dei rapporti di lavoro dipendente in essere.
Senza pretesa di esaurire l’argomento, si potrebbe fondatamente sostenere anzitutto che la chiusura temporanea (fino a nuovo ordine) dell’intera azienda o l’impossibilità di ricevere la prestazione di alcuni lavoratori, che siano imposte dai provvedimenti della pubblica autorità, si configurino come sospensioni del rapporto di lavoro non imputabili ad un comportamento del datore di lavoro e non prevedibili né evitabili, potenzialmente idonee, come tali, ad esonerare il medesimo datore dall’obbligazione retributiva e contributiva.
Ciò premesso, per tamponare la situazione di emergenza ed evitare il più possibile di lasciare i dipendenti senza copertura, le aziende stanno dando fondo al monte di ferie e permessi arretrati e non goduti.
Il possibile protrarsi di questa situazione, tuttavia, rende indispensabile un ragionamento sul ricorso a misure straordinarie di sostegno al reddito e agli ammortizzatori sociali, senza il quale c’è il rischio che i lavoratori che ricadono nell’area di applicazione dei provvedimenti dell’autorità rimangano alla lunga privi di copertura retributiva.
A tal proposito, peraltro, salvo interventi normativi dell’ultimo minuto, si ritiene che non sia comunque possibile utilizzare in modo generalizzato la Cassa Integrazione Guadagni, che si applica solo in determinate situazioni, a determinati settori di attività e per alcune categorie di dipendenti.
Discorso diverso, invece, occorrerebbe fare per quelle aziende che decidano di sospendere l’attività anche in assenza di un provvedimento dell’autorità che le riguardi, nelle quali la sospensione dell’attività sarebbe quindi giustificata “solamente” da esigenze di prevenzione e dall’adempimento degli obblighi in materia di sicurezza. In questi casi, infatti, pare difficile sostenere che il datore di lavoro possa ritenersi esentato dall’obbligo di pagare la retribuzione ai dipendenti.
Quanto ai dipendenti che in questi giorni decidano di non recarsi a lavoro senza essere malati o in quarantena, ma in via puramente precauzionale (ad esempio, perché abitano in zone geograficamente contigue alla zona rossa e per recarsi al lavoro sono costretti a prendere mezzi pubblici come i treni e le metropolitane), come bisogna gestirli? Dal punto di vista disciplinare, appare onestamente difficile ritenere ingiustificata la loro assenza, e comunque andrà fatta una valutazione caso per caso; a rigore, però, in questi casi non recandosi al lavoro il dipendente dovrebbe perdere il diritto alla retribuzione, fermo restando la possibilità di adottare trattamenti di miglior favore e accordi specifici (come quello che preveda lo smaltimento di ferie e permessi arretrati).